Elvira Manco



Stabat mater


Vai ora. Ti guarirò dalla morte.
Ho pensato.
La guarirò dalla morte. Dallo sgomento
di questa vita che si è fatta lentezza.
La passione si è arresa.
L’ustione del ricordo.
I graffi urlati sullo specchio.
È fredda questa sera. È lunga.
Copriti il cuore, adesso. Copriti.
Coprilo. Fa’ che smetta di battere.
Copri quegli occhi che smisero di guardarmi
molto tempo fa.
Sul mio balcone di nuovo
si è acceso il glicine
che sale dal tuo giardino,
ma i tuoi occhi non curano più nulla.
Le tue mani ancor meno.
Mi dico non c’è storia.
Solo una lacerazione di sguardi nascosti
una frantumazione di parole secche.
Il corpo di me che partoristi
non è mai stato mio.
Mi riprendo la mia carne in questa
primavera tarda e comprendo
che solo dai miei occhi mi svincolo
dai segreti e riconosco
le forme del sogno.

Dicono che sei mia madre.
Dicono.
È scritto.
Non si cancella.
Studio quel marchio di sangue
impresso sulla carta.
Io mi presento. Nome. Radice.
Chiedono se ti appartengo.
Che ti somiglio.
Faccio abrasione del volto.
La gatta mi ronfa in grembo.
La luce filtra tra i rami.
È tutto.

Se proprio vuoi restare
andrò via io.
Sono libera dall’incesto della colpa.
Nessuno può salvarti da te stessa.

È ora che tu ti dissolva,
che tu esca dalla memoria della mia carne.
È ora che la morte ti prenda come in sogno,
che ti sollevi e ti porti tra le braccia
con l’impazienza di un amante.

Se scrivo forse ti lascio andare.

Dunque, stai morendo?
Vieni a salutarmi prima di lasciare.
Ho i capelli imbiancati
e lo sguardo aperto sul mondo.
Mi riconoscerai?

Ti guardo e vedo che non sei nei miei occhi.
E neppure dietro di me.
Non ci sei. Mi dico. Non c’è non c’è non c’è.
Grido e canto. Canto. Mi sbrano.
Danzo nel tuo petto squarciato.
Mi dico ancora è vecchia è vecchia.
Un ramo secco da tagliare presto.
Che deturpa.
Che accende di rosso questa bellezza estrema.
Che urta gli oggetti minimi
e li fa inquieti.
Stridono le labbra posate sul bicchiere
la luce si gonfia
il coltello scortica i pensieri.
Mi siedo e aspetto.
La luce indora una piccola ragnatela.

Raccolgo briciole di pane insieme a schegge di te.
Mi ferisco le mani.

Se vai, ti libero dalla polvere di me,
ti asciugo un rivolo d’amore
che ti cola dal labbro spento,
raccolgo la tua saliva
nel tuo foulard crepe de chine,
ripongo i nostri sguardi
nel primo cassetto del tuo comò.
Riordino con cura le nostre vite.
Un filo di ragnatela brilla tra le ciglia.

Ti saluto. Con la mano ti saluto da lontano,
di continuo, da anni luce, ti saluto con la mano.
D’improvviso un uccello si alza in volo.
Penso è la tua mano che mi risponde.
Forse, prima di andare, vorrai
sistemare le tue cose
con la precisione dei tuoi gesti antichi.
Sòllevati. Sono dietro di te.
Ti sosterrò in questa ultima cura.

Simulasti la tua vita intorno al cerchio di un compasso
e in quel raggio perfetto non ci fu posto o nulla.
L’approssimazione era fuori del cerchio, fuori di te.
Era qui. Ero io.

Ti libero gli occhi dai residui di questa vita
e di quell’altra che non ci appartenne.
Ti libero le narici dal profumo dei tuoi fiori tenaci.
Ti libero i capelli dall’ardore dei gesti incompiuti.
Ti libero le mani il viso le rughe senza più finzioni.
Ti libero ti libero fatti libera e vuota
vola come un fuscello
come polline da fiore a fiore
che porti una rosa sgargiante fino al cielo
fino alla sommità delle nostalgie mancate
ah se potessi se potessi incidere nel vento
scolpire nel tronco di una quercia
senza devastarne la bellezza.
Parti! Esci dai miei gesti.
Dal disordine delle mie giornate
senza il tuo affanno.
Parti. Pòrtati via da me.
Io resto in questo crepuscolo
slabbrato di echi.
Annuso lo spavento dei miei gatti.
Annuso l’aria.
Riprovo l’equilibrio dei miei passi
prima di bruciarti gli occhi.










Una lama di luce
 

Salirò la scala più scoscesa
e la ripidezza, l’affanno,
lo spiraglio che s’apre,
il cigolìo come di sangue nella ruggine,
come lo stridore soffocato della resa,
come un tonfo che liberi,
uno schianto che apra tutti i segreti.

E’ limpido il mattino.
L’odore della pioggia mi sfinisce.
Una lama di luce scruta
il mio vero e il mio falso.
E io non ci sono.
Il ritmo del respiro
squarcia un volo di passero.
Ti ho lasciato solo ieri
la mia voce
vedi bene che non posso chiamarti.
Avrò una voce da soprano
il giorno che chiamerò
le mie amiche stelle.
Venere, dirò, Sirio,
Betelgeuse
scostiamo insieme
la trapunta della notte,
zitte zitte, spegnendo ogni riflesso,
scendiamo in fondo al mare.








Smeriglia


 Fà che non sia la morte
o che, se morte sia,
s’imperli in un mattino di rugiada
una sciarada – catena di conchiglie –
che tu dica, a guardarle,
mi smeriglia la voce che m’incanta,
che mi rode la pelle a grano a grano,
che mi stride le vene e che s’intoppa
là dove il tuo respiro mi risucchia
e via mi soffia.


8/10/07








Lettera a...


                   ore 9,30
Ti ho con me.
Nello spasmo delle aritmie.
E quando si scolora la speranza
e la piccola morte.
Ti ho con me.
E sei il soprassalto nella mia preghiera,
il luogo senza dimora
dove vuole albergare l’anima.
E questa perfetta simmetria
della tua assenza
nell’incastro cosmico che stilla
sul dolore
mi brilla fra le mani
e si fa urna.

                   ore 10,00
Morirò come l’uccello migratore
cercando il nido della scorsa estate.
Morirò come la foglia che cade
e spera di trovare il primo fiore.
Morirò come le parole accartocciate
che urlano la notte tra i rifiuti.

                   ore 11,30
Io scrivo, e gli occhi sono
nudi nella tua immagine,
scrivo dentro la scia
ardente di lontananze.
Scrivo dentro al mio utero,
nel cavo della mano
e lungo le cartilagini
che mi tengono al corpo.
Sono
certe parole
che non vedono
mai luce
eterni germogli
avvizziti.

                   ore 13,00
Come vedi non posso smettere di scriverti. Se fossi un contadino, la notte scaverei buche profonde e in ciascuna adagerei una lettera del tuo nome, un lampo del tuo viso, un frammento del tuo pensiero. Tutta la notte scaverei buche. Tutte le notti. Poi, vicino all’alba, le colmerei. Di giorno, al limitare del campo, parlerei al sole ed al vento, pregherei alla pioggia gentile.

                   ore 13,15
Pensi che potrai fiorire? Ho esaurito i miei riti. Ho disposto le pietre, le parole mortali e le divine, le danze propiziatorie, i digiuni che scabrano a lama di coltello.
Non posso smettere di scriverti.
Ho scardinato i miei giorni dall’incastro docile con le altre vite. Ho demolito le fondamenta della mia casa e calcinato ogni residuo della memoria.
E ora, in questo deserto claustrale, scopro l’immoto fluire del tempo gocciarmi come lava sulla carne che mi hai aperto. Non ho scoperto il dolore. Quello era già. Piuttosto, in quello, hai scarnito le mie ossa con un chiodo.
Ho di tutto taciuto. E dolce il crepuscolo mi oscura e lacrima un residuo ancora tenero che in me pietrifica.
Non posso smettere di scriverti.
Ti scrivo mentre cammino. Mi piace ascoltare il vento perché penso che, forse, verrà a spaginare i miei pensieri e te ne porterà un frammento ed un sussulto.
Ho ritagliato con una lama sottile questa distanza siderale. Credevo di assottigliarla e invece ho reciso il filo. Ho reciso. Ho visto scivolarti via dalle mie dita. A lungo ho riafferrato il vuoto. Ora ho esaurito la protezione della pelle, ma ancora la mia carne viva tenta l’impossibile.
Non posso smettere di scriverti.

                   sera
(mio amore
mia vita
mia luce
mio intimo canto,
ti chiudo in un cassetto
e butto via la chiave.
E così tu dormi
e io
non potrò più amare)








Narrazione


Il segno
Ritorno al punto di partenza, la danza, l’assillo della mutazione, la congiunzione fatale degli astri e il loro transitare nel segno del destino.

                   Il prologo
Sgroviglio i capelli d’un bambino, inseguo echi di fossili in prematura apparizione. Dura un istante la perduta visione d’una membrana serica, la muta filigrana d’una palpebra. Il compimento d’un gesto racchiuso nello sguardo.

                   La caduta
Il movimento è il ritardo dell’attesa, un suo rimando. Un transito costretto in una vena occlusa.
Estesa sera. Estesa sfera di sogno. Estesa...

                   La partenza
Il bagaglio è tutto in una mano. Filo di ragno che vibra alla sua preda. Mi lascio la bianchezza d’un greto marginale e austero, bellezza maniacale d’un volo di falena, velo di cenere, scissa fra brace ed aria.

                   La ricerca
Qui il viaggio si fa breve, fugace arcobaleno fra disastri contrari. Scelgo il passaggio più greve, fra i monti aspri, dove il respiro si fa arduo e sottile.

L’eremitaggio
Amo il mortale svanire del giorno, il dischiudersi misterioso dei globi delle stelle, la congiura intermittente delle presenze e l’arida invadenza delle mancanze.

                   Il passante
Ti cullo. Ti addormento. Le braccia sono sarmento nella bonaccia. Il mio trastullo è questo rumore lievissimo di anime che mi passano il cuore.

                   La sera
Cogli il fiore. L’attimo infinito che passa e l’appassire. Non morire. Non morire. Cura il rito del risveglio, il distillìo delle ore. Fa’ dei minuti, dei silenzi, dei tuoi vuoti d’amore, la trama della giornata e la mia notte stellata.

20 – 11 - 2002

7 commenti:

  1. Ho già avuto modo di commentare poesie di Elvira Manco, della quale apprezzai sia l'attitudine a inventare e sorprendere senza ricercare eccessi, sia l'asciuttezza dei versi, a volte quasi scarnificati e dolorosamente secchi. Oggi mi accorgo con piacere di un'altro aspetto delle sue liriche, di valore forse ancora maggiore, almeno per il sottoscritto: una capacità di apertura e una serenità evocativa che, nei componimenti qui presentati, raggiungono livelli notevoli in "Una lama di luce":

    "Avrò una voce da soprano
    il giorno che chiamerò
    le mie amiche stelle".

    Elvira ci dimostra che tale sereno respiro è possibile anche dentro un'acuta sofferenza e che la poesia può esprimerlo in maniera impareggiabile.

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  2. La poesia di Elvira è drammatica, nel senso originario del termine, pulsa di passione e di dolore, pulsa anche d'amore.
    Riesce a mettere insieme spine e stelle in un discorso di senso e di grande maestria formale.
    Credo che lei stessa si sia commentata con l'ultima delle riflessioni riportate: un memento che tutti e sempre dovremmo portare con noi.
    Narda

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  3. ma che brava Elvira, questi versi sono a dir poco straordinari!

    Anila Hanxhari

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  4. Queste poesie a leggerle tutte in una volta c'è da restarci secchi. Elvira lascia scorre nei versi tutto il suo vivere come un fiume in piena e riesce a farne una poesia bellissima, talmente bella che perdona tutto anche il dolore.

    valdo

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  5. Qui la frantumazione del verso assume un connotato esistenziale, specchio di un disagio e insieme marchio di un'esperienza volta nella direzione della consapevolezza, di un'adulta presa di coscienza.
    Si respira un'ansia di libertà, un anelito di liberazione, una spinta verso l'autonomia.
    Maturità che s'affaccia prepotente nella trama dei versi e manifesta una sofferta bellezza: il cigolio come di sangue nella ruggine.
    Tutta la poesia Smeriglia è uno spartito sapiente di musicalità e di impasto lessicale fecondo di rimandi, concatenazioni, pura magia del suono, che finalmente parla di letture, di un retroterra culturale coltivato con passione, con tenacia, con dedizione amorosa.
    Il retroterra letterario si svela ed è presente non come esercizio di vanità ma come spessore di una ricerca di verità e di emancipazione.
    Tutta la biografia di Elvira si situa con determinazione su una strada di ricerca seria, schiva e indenne da compiacimenti.
    Siamo di fronte a una scrittura adulta, drammatica, profonda, che merita di essere pubblicata e conosciuta.
    Trovo di una bellezza spettacolare la chiusa di Stabat mater:

    Annuso lo spavento dei miei gatti.
    Annuso l'aria.
    riprovo l'equilibrio dei miei passi
    prima di bruciarti gli occhi.

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  6. Leggendo i commenti precedenti sento parlare di serenità evocativa, e certo questo per me è vero se si prende in considerazione la forma limpida ed elegante dei testi. Ma se passiamo al significato, piuttosto che serenità io riconosco in questi versi una grandezza tragica che mi fa pensare, all'io narrante di queste poesie, come ad una eroina tragica, una Fedra, una Didone, una Medea. La maestria della poetessa è di essere riuscita ad esprimere le vette dell'intensità mantenendo un equilibrio che contiene l'espressione poetica nell'ambito di una purezza formale; in tal modo Elvira riesce a toccare le corde più intime e scoperte di sentimenti estremi senza mai perdere la compostezza di una grande Autrice. Susy Fiore

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  7. ringrazio tutti di cuore. i vostri apprezzamenti vanno al di là delle mie aspettative. nel corso degli anni, molti amici hanno letto e lodato (ma anche criticato) i miei versi, ma mai in modo così attento, cogliendo il senso della mia ricerca che è prima di tutto ricerca del Sè superiore.

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prova