Matteo Greco
Matteo Greco nasce a Gagliano del Capo (Lecce) ventinove anni fa. Si trasferisce a Bologna per studiare Semiotica e dopo la laurea intraprende un dottorato di ricerca, coltivando al contempo la sua passione per la poesia. Nel 2007 vince il Certamen del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. Attualmente scrive poesie su diverse riviste letterarie online (Autorieditori, La scrittura meridiana, La poesia e lo Spirito, Caffè corretto), e antologie (Le poesie della tabaccheria) e sta curando la sua prima pubblicazione poetica, intitolata Giorni fatti a mano. Vive e lavora a Milano.
Il vento del Salento
Il vento del Salento
È gamba varicosa
È inciampare e maledire
Sopra i sampietrini
È scialle scuro che era velo
Della sposa
È mestizia sparpagliata
Lungo i campi
Che non posso dire.
È porta che sbatte
In faccia alle galline
È sputo azzurro
Sulle guance delle case
È silenzio e persiana
Bianca che non risponde
È terra imbarazzata
È pura indifferenza
Maculata delle onde.
Per i ragazzi è spaesamento
Chi è dentro, fuori!
Chi è fuori, dentro!
È vetro rotto
Come faccio ad aggiustare?
È confusione
E se mi faccio svaligiare?
È redenzione:
Vieni pure,
Io sto uscendo!
Il vento del Salento
Non vuole dire niente
Al bambino che torna dalla scuola
E gioca con le ghiande
Al ragazzo che è partito
E alla madre che le piangono
Le gambe
È litania senza parole
È preghiera che non cerca santi
Mi azzittisce con un dito
Sulla bocca
E certe volte sono triste
E certe volte
Sono contento
O sono solo
Un gradone della chiesa
Un muretto a secco
Un foglia di fico che resiste
E se qualcuno ride
È soltanto il vento.
Le ragazze non esistono
Le ragazze non esistono
Anche se ci arrivano le onde
Anche se annusiamo
Che da qualche parte sta piovendo
Anche quando restano le salme
Degli stecchi dei gelati per la strada
E quando
Lo scirocco sta passando
E spazza i marciapiedi
E piange.
E allora
Le mosche che ho raccolto?
E i marciapiedi che ho imbrattato
Camminando,
E tutti gli aquiloni che ho contato
Minuziosamente?
Per che cosa sto poltrendo
Dentro questa chiacchierata
Di merletti e vento?
I ragazzi lo sanno
Ma vuoi mettere il piacere
Quando senti borbottare
I motori delle barche, fra i capelli,
E i fari provano a chiamare:
La stiamo perdendo!
Le stiamo perdendo!
Vuoi mettere
Il piacere di sbattere sui vetri
Assieme a tutte le zanzare?
Anche se alla fine
Non esistono,
Quando cascano per terra
Le pesche all’improvviso
E tremano le tazze dentro ai bar
Non esistono,
Anche se si abbassano
Le saracinesche del paese
E quando si slacciano
E si spandono i sacchi delle olive
E sudano
Le zappe e i rastrelli nel giardino
Anche quando si sbottonano
Le ultime ore della sera
E giurerei che sei proprio
Qui vicino.
Gli occhi della gente
Dove si fermano gli occhi della gente?
Dove guardano, in cima a una vestaglia
Di flanella
Per chi brillano, sulle autoreggenti?
Sono occhi o sono dadi,
Questi indiani che urlano al galoppo
Questa notte che esce dai recinti?
Come andranno
I miei passi alla mia bella?
Questi occhi impauriti che fanno
Paura
Queste vele che si infrangono
Sul vetro
Vedranno qualcosa mentre si riempiono
Di luna
Questi occhi riservati,
Non dicono mai niente.
Non vogliono uscire
Gli occhi della gente
Non si vogliono sporcare
Stanno andando da tutt’altra parte
Succede sempre
Non ci riusciamo mai a beccare.
Queste foglie
Posate sopra un cornicione
Sono sempre gli altri occhi
I miei occhi
Non conoscono padrone.
Queste lunghe e affusolate
Gambe che rinunciano a danzare
Queste mani appollaiate
Sopra i seni e gli altri colli
Della sera.
Com’è possibile
Che non sia tutto di cartone?
Questi passi titubanti
Sul promontorio ventoso delle ciglia
Con il mare che in un attimo
Si annera.
Ma è di carne questo sogno:
Provami a guardare!
Imprevisti
Mentre sfrecciavano
Tutte le luci
Sotto la pelle
Mi hanno accerchiato le gambe.
Era l’inverno, o un rosario o
Un guinzaglio.
Mentre indugiavano
Bene gli incroci
Mi hanno piantato
Come un paio di forbici
La morte
Nelle mutande.
Umane percosse
Picchia il secondo
Questo pugile modestamente
Incazzato sotto la camicia
Picchia la pioggia indifferentemente
Trovandomi tasti e giardini
Che non conoscevo.
Picchia basso mio padre
Ogni giorno, lasciando
l’officina sporca di ore
il calendario che non chiede più niente,
sanato il tramonto
da ogni pensiero.
Picchia mia madre dentro la testa
Chiunque esso sia la deve pagare
E non sarà mai abbastanza
picchia mia madre da sola
nella sua stanza
la vedo perdersi nella tempesta
e non la posso salvare.
Picchia le tempie
Il secondo perfetto
Quello in cui non mi hai negato
Ma non mi hai neppure detto
E ho nuvole ancora
Da dissipare
Picchia l’oggi il domani
Che cosa vuoi? Dove mi vuoi portare?
Picchia alle spalle il passato
Ed ha fame.
Stringono il volante le dita:
Non mi stanno inseguendo
Non stavo scappando
Ma picchio più forte
Il pedale anche io
Perché non so ancora
Dove mi posso fermare.
Confinire
Precipita un bicchiere dal lavello
Senza che accorrano le autoambulanze
Qualcuno ride, un altro finge
Di arrabbiarsi: l’incidente è bello.
Si rompe il televisore
Senza che lo pianga il telecomando
O almeno il telegiornale della sera.
La lavatrice se n’è andata
Facendo fare alla maglietta
Un ultimo giro nella pancia,
L’auto si è fermata che non aveva fatto
Ancora testamento
Continueranno a girare in tutta fretta
Alcuni suoi pezzi nelle piazze
E non ricorderanno niente.
Magicamente
Si chiudono le porte
Inciampa la bottiglia sopra la tovaglia
Molla la presa
La spina dentro il muro.
Bisognerebbe ritornare
A sbattere perché lo dice il vento
A connettersi se c’è elettricità
Ad oscurarsi quando piove forte
E sentire che non succede
Niente di tremendo, di anormale
Se si è inceppata la chiusura di un abbraccio
Se rimangono nella vasca dei sorrisi
Se non si accende più
Un nome ed un cognome.
Ma com’è che resto
Col telecomando in mano
A insistere
E insistere
Sul tuo canale.
Bravo Matteo, come sempre le tue poesie arrivano al cuore__nulla da eccepire mannaggia!;P
RispondiEliminaBelle. Nella semplicità delle parole e del quotidiano, immagini vive. Un universo animato, in cui gli oggetti e le cose del mondo, parlano e ci riportano a noi! Grazie Matteo. Gemma :-)
RispondiEliminaHo scritto 3 volte un commento. Non mi viene pubblicato... chissà
RispondiEliminaTorno a dire che sono belle poesie, amare quanto basta, di contenuto lirismo, profonde e misurate.
Perchè la poesia non è metalinguaggio, ma parole che dicono di noi, del mondo, della fragilità della creta, delle sue crepe, delle trafitture...
Narda
"Uno sputo azzurro sulle guance delle case",diventa scorcio autentico di un mondo con anima,voce,respiro.C'è un ritmo incalzante di suoni e immagini,tanto che la lettura diventa un viaggio dentro grandi e piccoli spessori dell'anima.Lode...
RispondiEliminami sembra che matteo abbia trovato il lasciapasare che lo consegna alla felicità nella parola poetica, la quale possiede la peculiarità della magia, che è chiamare le cose con un nome più consono, più adeguato rispetto al nome logorato dall'uso che ne facciamo nel quotidiano, chiamarle col nome segreto il quale soltanto consente di farle venire, di consegnarcele nella luce di un'evidenza nuova, ed è questa lingua che consente di chiamare gli occhi della gente indiani che urlano al galoppo
RispondiEliminaE' necessario andar via per poter rientrare nel magico Salento.
RispondiEliminaMinobello.
Come non riconoscersi nei tuoi versi?
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RispondiEliminaCome non riconoscersi nei tuoi versi?
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