Da: Il libro
dell'oppio (1975 – 1990)
postfazione di Mauro Ferrari
Puntoacapo, Novi Ligure 2012.
postfazione di Mauro Ferrari
Puntoacapo, Novi Ligure 2012.
Tossici (Addicts)
Lì,
il tuo profilo adunco
le arie
di artista
maledetto
le ore curve
e pupille appuntite
e una ciocca come una siepe
ti faceva riparo
sul volto smunto ma tenace,
pelle e ossa
annodate insieme,
abbracciate strette
in una morsa rigida
strette
per non perderle
come un rotto automa,
una macchina in avaria.
Sara,
tatuaggi e i bicipiti
sfrontati,
lei maschia
lei oltraggiosa
fatta di vita
delle sue cicatrici
lei come un uomo
La sua bellezza era un seme
così particolare.
P., la sua vita come un film,
adolescente graffiata
la polvere amava più del suo sangue
nervoso
come camminare sull'orlo della morte
in un patto stregato.
*
E rimarrà così per sempre nel ricordo.
Una ragazza triste
che coglie una margherita,
una foto ingiallita in un arco di fiori
un debole sorriso, arrendevole
alla nostalgia del male
e vivere clandestina nel mondo dei grandi.
E rimarrà triste
lei che coglie
una margherita in città, tra le case,
aspettando un giovane sensibile
un principe dal cuore gentile,
che si ubriachi con lei,
che faccia a pugni per lei.
1982
Ipnotica (Overdose)
Giù
faccia sul marciapiede
scompaio all'orizzonte
mi eclisso, una meteora
nella prospettiva
del morbido asfalto anestetico
come tagliare i fili
e mettere il mondo al nero.
E sì, che aprivo lo sportello
e ti parlavo, lì,
cose senza interesse
(cado senza sentire)
e poi suoni,
la città risale, e il traffico e
(svegliarsi
in lontananza)
tu che mi reggi
e io un pupazzo,
me bambola sconfitta,
fantoccio floscio, stracci,
(apro gli occhi
non apro gli occhi)
La morte vive così vicino,
che non lo sapevo.
1985
*
Nel tuo corpo
c’era tutto il mondo
e a me piaceva
sentirmi
piccola
tu mi trascinavi
con quel pizzico di violenza
per una strada
che non avrei voluto percorrere
ma seguivo i tuoi passi
come un cane affettuoso
come cerchi di fumo
come un felice riflesso
su quell'asfalto lucente
della città notturna!
Trotterellavo come un bimbo
tra i lazzi di noi due ubriachi
specchiandomi nella pioggia.
(Eroina e città-giocattolo)
India. (Abbandono)
Ritmo spezzato
caligine tagliente,
spargiamo le ceneri in mare.
Sei partito,
foglia nell’uragano
silenzioso.
Campanelli
in marcia
su strade
di terriccio rosso
sabbia, quasi polvere.
Cascata,
arpeggio
dell’infinito
richiamo beffardo
di un amante di strada,
confusione di stelle,
come dirti
di no?
(Mi condanni) mi conduci
dove non andrei.
Strade
dei suburbi
dove ci si perde
in una cascata di note
in quei riflessi metallici
sulla mia giubba
di feroce pelle nera
che lancia strali bluastri
come un personaggio dei cartoon
stretta in me stessa
come un infinito piccolo dio incosciente
impermeabile ai colpi
invulnerabile idolo che guarda
la notte schizzare nel parabrezza,
lungo la via,
e la mistica polvere
officia nelle vene suoi adempimenti ultimi,
dona l’onnipotenza
della luce,
della divina indifferenza,
una benedizione
in piccole gocce letali,
in piccole onde struggenti,
la divina provvidenza,
il mio sporco sangue
il mio sporco imperio.
Due inediti dalla raccolta Cadere all'infinito, 2012:
New York
A queste ore oblique
i raggi sono lance tra i grattaceli
si specchiano sulle superfici traballanti degli autobus
fanno irreali apparizioni sulle facciate dei palazzi
sui mattoni rossi di Harlem
accendono le scalette antincendio
posano sulle aiuole, ciuffi d'erba
temeraria tra le pietre rilucenti
marmoree torri di vetro
e il cielo d'oro si affaccia sulle
graticole riflettenti di milioni
di finestre
con tutto il mio languore
malato, spossato
da desideri erranti
porto un cappello a sonagli
aspetto un pusher dagli occhi a mandorla
non mi conosce e non si fida
mentre l'ultimo sole ci acceca
l'ultima luce radente del giorno
mi ammala
prima della sera
e cerco riparo nell'irreparabile
come un figlio di dio
un figlio di mia madre
dietro questi angoli
di specchi recisi
di strade potenti
universi troncati ai crocevia
oneway...
e passi frettolosi
di chi va a casa
portando sulle spalle
il peso indicibile
di essere
un uomo.
Cadere a Bangkok
Gecko Bar
ogni giorno alle cinque
e gli avventori tatuati di libertà
le stesse facce di gente fuggita
da chissà dove
per approdare a questo porto
di lenta luce perduta
e lenta noia di ore come viandanti
estenuati sulla strada a un passo
affollata e mobile di astratto transito
ore perse d'estremo oriente
tra i tavolini traballanti sul bordo della via ingombra
di ombre vaganti e bancarelle
sedie di plastica e una tettoia
parlano amore le tailandesi
a uomini bianchi
dietro volti di sfingi bambine
la padrona del bar regna tra i tavoli
e legge la mano a un giovane timido
che venne qui per perdersi
e dimenticare il tempo nelle ore allentate
del confine dell'Asia
che allarga la sua nube d'incensi
inebrianti e penetranti per accenderti sotto la pelle, debole
di fronte a una specie di incantevole morte
con una sorta di vertigine sudata
il senso di tutto lasciare
alle spalle come cadere
consenzienti nel nulla
con un lungo passo
un po' temerario e un po' vile
di perdente infinito adescato da uno strano languore
da un male intimo
che incrina il cuore
piangente
di segreti spiriti
d'inettitudine assaporata
con voluttà strana e perduta
cadere a Bangkok essere nessuno
tra la mistica folla, i canali, i templi, le barche, l'oppio
i pesci, i felini randagi e dorate preghiere buddhiste
essere flutto tra i flutti
frutto tra i frutti
cesta ricolma di colore tra i colori
corrotto profumo che svanisce nell'aria malaticcia
amo perdermi e cadere
nelle ore smarrite
sentire ventilare mite il vapore della metropoli
che ti cattura e consuma
nell'anima guasta e tremante,
fibra corrotta di brama, marcia frenesia
sorrido al mio vizio
di uomo bianco
stupito e sedotto al midollo
un po' timido del suo potere.
In una città dove si può cadere
e cadere
e cadere,
precipitare
all'infinito,
senza mai
toccare il fondo.
Caterina Davinio © 2012
Caterina
Davinio (Foggia,
1957) è cresciuta a Roma, dove si è laureata in Lettere
all'Università Sapienza, occupandosi successivamente di arte dei
nuovi media come autrice, curatrice e teorica. Tra i pionieri della
poesia digitale nel 1990, ha svolto attività espositiva,
convegnistica e curatoriale in molti paesi del mondo e oltre trecento
presenze in mostre di rilevanza planetaria, tra le quali si segnalano
sette edizioni della Biennale di Venezia ed eventi collaterali, il
festival E-Poetry
all'università
SUNY Buffalo (New York) e all'università di Barcellona, i festival
di poesia multimediale Polyphonix
(a
Barcellona e a Parigi), VeneziaPoesia
(a cura di Nanni Balestrini),
Artmedia
VII
(a cura di Mario Costa, all'Università di Salerno), il festival di
poesia internazionale di Medellin, in Colombia, le biennali d'arte
contemporanea di Sydney, di Atene, di Merida, in Messico, di
Liverpool, di Lione, e la Artists' Biennial di Hong Kong.
Scrive
poesie dall'età di quattordici anni. Ha pubblicato i libri di
liriche: Fenomenologie
seriali
(Campanotto, 2010), con traduzione inglese a fronte, postfazione di
Francesco Muzzioli e nota critica di David W. Seaman, menzione
speciale nel Premio Nabokov 2011 e segnalato nel premio Lorenzo
Montano 2012; Il
libro dell'oppio
(Puntoacapo, 2012), con postfazione di Mauro Ferrari. Opere di poesia
elettronica sono comparse in riviste, cataloghi e saggi
internazionali, tra queste: Nude
That Falls Down the Stairs -
Tribute
to Marcel Duchamp,
animazione digitale dalla serie UFOp
(Unidentified
Flying Poetry Objects),
1999;
Poem
in Red,
video digitale dedicato alla Ferrari Modena, 2004; Network_Poetico,
net-poetry, e The
First Poetry Space Shuttle Landing in Second Life,
digital video e installazione virtuale di poesia, 2009.
Caterina
Davinio è autrice del romanzo Còlor
còlor
(1998),
del saggio Tecno-Poesia
e realtà virtuali (Sometti,
2002),
prefazione di Eugenio Miccini, e di una raccolta di scritti e
documenti sulla net-poetry: Virtual
Mercury House. Planetary & Interplanetary Events
(Polìmata, 2012).
Compare
in numerose antologie poetiche e pubblicazioni italiane e straniere
d'arte, letteratura e avanguardie, tra queste:
Dentro
il mutamento,
a cura di Maria Lenti, Fermenti, 2011; Retrobottega
2,
a cura di Gianmario Lucini, CFR, 2012; Scritture
celesti, poesie in cerca di Dio,
Ed.
Labos, 2003; “Atalanta Review” numero speciale Italy,
a cura di Francesco Levato, 2011; “Fermenti”, Roma, 2011;
“Risvolti. Quaderni di linguaggi in movimento”, Edizioni
Riccardi, Quarto (NA), 2011; La
tentation du Silence,
Ouvrage collectif, Coordinateurs: Khaldoun ZREIK, Rania SAMARA,
cEuropia, 2007; “Sugar Mule, a Literary Magazine”, issue #21;
Generatorpress12,
2002, Cleveland (OH) USA, John Byrum Editor;
Parla
come navighi. Antologia della webletteratura italiana,
Il Foglio, 2010.
Vive
a Monza e a Roma.
Wikipedia:
voce “Caterina Davinio” presente in quattordici lingue:
http://en.wikipedia.org/wiki/Caterina_Davinio
Canale
YouTube: http://www.youtube.com/user/CaterinaDav
Alcune
interviste a Caterina Davinio:
Televisiva,
su La 7
Storie
di libri (di Francesco Forestiero)
Enterprise
(di Armando Adolgiso)
Daemon
Magazine (di Azzurra D'Agostino)
UQBAR
(di Roxelo Babenco)
Java
Museum (di Agricola de Cologne)
Istanbul
Museum (di Samet Durgun)
IL
LIBRO DELL'OPPIO, di Caterina Davinio, Puntoacapo
Editrice, postfazione di Mauro Ferrari, Novi Ligure 2012.
Il
libro dell'oppio,
ovvero: gli anni maledetti di un protagonista dell'arte e della
poesia elettronica internazionali.
Oppio
e oppiacei, vizio letterario per eccellenza - con precedenti ed
esponenti del panorama letterario, da Baudelaire a De Quincey, da
Coleridge a Burroughs - trovano in quest'opera uno spazio non gravato
da vittimismi né da pregiudizi, con una prospettiva delirante, ma
libera da censure e tabù.
Scrive
l'autrice nella nota introduttiva: “Questi
sono infermi (e infernali) paradis
artificiels...
Di
certe malattie del corpo e dell'anima forse è meglio non parlare,
dissimulare, non turbare la suscettibilità di chi al mondo riesce a
dipartire con tanta sicurezza il bene e il male, la salute e
l'afflizione, il paradiso e l'inferno. Infatti, questo libro è
rimasto inedito, ed oserei segreto, per più di un
ventennio”.
Possiamo
definire Il
libro dell'oppio
opera di un giovane poeta: esso contiene, infatti, liriche create
dalla Davinio dai diciassette ai trent'anni.
Mauro
Ferrari nella postfazione osserva: “È una poesia che raccoglie in
un unico fardello un’esperienza di vita comunque piena e
dolorosamente gioiosa – avanzerei anch’io un ossimoro – che in
Italia ha ben pochi uguali, e che non si rifugia nemmeno nel
maledettismo più o meno di maniera, né tantomeno nel moralismo. […]
Quella di Caterina Davinio è una poesia che gronda vitalismo,
fisicità e corporalità, che credo ci faccia amare oltremisura la
vita proprio perché affonda le unghie nell’abiezione, nell’azzardo
e nella morte – nella sfida alla morte, anzi, e senza retorica, né
nella costruzione dei versi né nella dimensione narrativa di questa
sorta di diario allucinato e lucido. […]
Storia?
Sì, le date (a cavallo fra il 1975 e il 1990) ci raccontano di anni
di piombo ed eroina; i singoli testi ci raccontano però una storia –
meglio, ci offrono istantanee frammentate, a
heap of broken images
che non ambiscono a un’organicità assoluta – attraverso cui la
ricerca del piacere (momentaneo ed effimero, come è sempre
leopardianamente il piacere) si fonde con l’immersione nel dolore
come sistole e diastole. La ricerca affannosa della droga è
vagabondaggio, dilazione e attesa (« l’attesa è tutto»); la
resurrezione alla vita dopo una notte di droga, o la lucidità che
illumina fra due baratri è dunque la conferma terribile di quanto
valga «quella vita che manca», di come essa vada corteggiata per
sentirsi vivi un giorno di più, ebbri sul bordo dell’abisso”.
Di
Caterina Davinio, scrittice, poeta e artista, è noto il lavoro nei
nuovi media, che l'ha portata dal 1990 nei circuiti dell'avanguardia
internazionale, in pubblicazioni, festival, mostre e convegni di
rilevanza mondiale, quali la Biennale di Venezia, La Biennale di
Sydney, di Lione, di Liverpool, di Atene, di Merida, l'E-Poetry
festival (Università di Bacellona e Università SUNY Buffalo, NY),
Manifesta, e molti altri, con oltre trecento presenze in
significativi contesti espositivi. Questa sua ultima opera ci apre un
varco in un periodo oscuro che precede il 1990, negli anni Settanta e
Ottanta, offrendoci una galleria di situazioni, personaggi e
atmosfere tratti dal mondo della tossicodipendenza, con momenti di
edonismo, di nichilismo, ma anche ludici, o drammatici, come in
Overdose,
Anorexia,
Flash
(Poema dell'eroina).
Il
libro dell'oppio
propone centoquattordici poesie scelte dalla raccolta, quasi
completamente inedita, Fatti
deprecabili,
che include testi prodotti dalla prima adolescenza. Davinio ha
cominciato a scrivere poesie all'età di quattordici anni, componendo
tra il 1971 e il 1997 oltre quattrocento liriche e testi di
performance, alcuni dei quali presenti in antologie, letture
pubbliche e spettacoli, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni
Novanta. I testi poetici nel libro, mai presentati né stampati
finora, sono un primo tentativo di riordinare e organizzare per la
pubblicazione parte di quei manoscritti.
I
temi della marginalità e della droga non sono nuovi nella produzione
letteraria della Davinio, già presenti nel suo romanzo Còlor
còlor,
del 1998, e in varie liriche, come nella raccolta Fenomenologie
seriali,
del 2010.
Il
libro dell'oppio,
in un linguaggio fino dalle origini rivolto alla sperimentazione, con
una vocazione per la frantumazione delle strutture sintattiche, del
verso, e, a tratti, della parola, predisposto all'imprevedibilità di
scarti e passaggi inaspettati, offre, in modo non meramente
neorealista, uno spaccato di vita e delle culture giovanili degli
anni Settanta e Ottanta, della generazione forse più colpita da
quella che è stata definita la cultura della droga.
Versi di dolci ricordi di un vivere adolescenziale, di amici, sogni, amori. Non c'e' colpa, non c'e' assoluzione, sono ricordi come altri, come quelli di una vacanza al mare, mirabilmente versati in poesia da una bravissima scrittrice. Chi e' stato giovane negli anni '70-'80 non ha potuto fare a meno di accostarsi alla realta' della droga, anche solo restandone ai margini. La droga faceva parte direttamente o indirettamente delle nostre vite e i drogati potevano essere nostri dolci e dannati amici ...fino al momento in cui scattava la "scimmia". E dopo li ritrovavamo seduti per terra o su un muretto che non ci riconoscevano e bisognava stare un po' con loro per decidere se serviva un'ambulanza. Non c'era una netta divisione, come si potrebbe pensare, fra "noi" e "loro". Ed era "normale". Normale dannazione, normale societa' che triturava gli aneliti di riformismo dei giovani consentendo e favorendo con la passivita' l'accesso all'aberrazione della droga. Oggi e' business la droga, allora era vero oppio. Veramente notevoli questi versi e comprensibile seppur un peccato l'averli tenuti segreti cosi' a lungo. CZ
RispondiEliminaNe ho già scritto su Imperfetta Ellisse.
RispondiEliminaPenso a certi tronchi incavi lasciati sullo sterrato. E penso alle idee quando si frantumano.Alla libertà quando mente,penso ai colori dell'inferno e alle allucinazioni di chi non osa,che sono le peggiori."In una città che si può cadere e cadere",io penso soltanto alle colpe e alle vendette dell'etica e in queste poesie riscopro l'anarchia di troppi cuori che non battono più col mio.
RispondiEliminaIl Trainspotting italiano :)
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