Marco Righetti 


nota biografica. Ex avvocato penalista, è iscritto a Lettere - Italianistica.
Ha vinto numerosi premi letterari. Dopo un’iniziale partecipazione ad antologie di Book editore, tra cui Una strada di parole  e I Quaderni Del Calamaio, nel 2006 pubblica la raccolta poetica Dirette (Lietocolle), “Premio opera prima” all’Astrolabio 2007. Nel novembre 2010 è uscito il 2° libro di poesia, Il seguito mancante (Puntoacapo edit, prefaz V. Serofilli, postfz P. Perilli).
Collaborazioni Con testi e recensioni collabora a Il clanDestino e, on line, a Senecio (di E. Piccolo e L.Lanza), dove sono usciti fra l’altro il poemetto Riscritture e le relative note a lettura di A.Ferramosca. È presente in vari blog letterari, fra cui quelli di A.Spagnuolo, F.Santamaria, I.Mugnaini, la community di Poeti e Poesia.Suoi inediti sono stati pubblicati, fra l’altro, sui n. 34, 39-40 di Gradiva. Uscirà con inediti (narrativa) sul prossimo n. 26 di La Mosca di Milano.
Grandi eventi di danza Suoi testi sono stati coreografati in occasione di grandi eventi di danza: Festival internazionale della Val di Noto a Catania, Accademia di Santa Cecilia:Premio delle Arti, Premio Roma, programmi televisivi Rai, Castello Odescalchi di Bracciano, Teatro Ruskaja dell’Accademia Nazionale di Danza, Conservatorio di Trapani, Premio Giuliana Penzi a Udine,ecc.
Incontri con l'autore In occasione delle giornate dedicate agli incontri con gli autori è stato ospite alla scuola Cesare Piva di Roma, dove ha tenuto una breve lezione (e relativa proposta di testi) su alcune autrici del Novecento, nonché sulle relazioni di affinità e distanza fra prosa e poesia.
Teatro Nel 2009 è finalista al premio Nicola Martucci nella sezione Attore, per la quale interpreta il monologo centrale di Edipo da “La serata a Colono” di E.Morante. Autore di pièces, è 2° al medesimo N. Martucci 2010 nella sez. Testi Teatrali con l’atto unico 2070: due ombelichi.Ha pubblicato l’atto unico Il posto sul numero 10/2011 di “Teatro contemporaneo e cinema”. È finalista al N. Martucci 2011 con la pièce Benedetta guerra


Nota a margine dei testi, con una brevissima riflessione sul fare poesia
Sono sempre stato convinto che poesia sia un modo altro, un codice più diretto di quelli tradizionali, per esprimere luci e ombre della vita, dolori e speranze; un modo per tirare fuori la nostra metà oscura (=non detta, non raggiunta, o, come già intendeva il volgarizzatore duecentesco Bono Giamboni, non verificabile) e farla parlare, vivere.
Scrivo e divento io stesso oggetto pronunciato dalle mie parole, “sono il foglio aperto su cui si posano lettere dal mondo”, scrivo perché altri mi parli di sé e mi raggiunga: “Io, Paola, ragazza disabile”. Sembra paradossale, ma quello poetico è l’unico caso in cui le parole, attraverso la finzione più vera (talvolta drammaticamente vera) che possa darsi, partono da chi scrive ma sono pronunciate dal lettore che le condivide, dalla bocca stessa di una e mille Paola, “fiore celato nel (suo) abito musivo”. È in virtù di questo meccanismo che azzardo la conclusione: “ora so perché ricordo cieli che non ho vissuto.” Poesia come urgenza di conoscere, e di catalizzare nella mente ciò che sta fuori: per comprenderlo, amarlo.
In tempi di efficientismo-a-ogni-costo non sarà mai ripetuto invano: poesia non è allegoria di un tempo inutile, sequenza di versi ‘campati in aria’, disancorati dalla radice corporea. Da quando - qualche millennio fa - è stato riempito dalle Nuvole aristofanesche e dai loro concreti poteri, anche il cielo è diventato terreno, accessibile (è un altro ossimoro di cui vive la poesia).
Cessate le ultime ventate di biografismo e di minimalismo, il vissuto e la sua trasfigurazione afferrano ormai le parole e le trasformano in segni, immagini, accostamenti inediti (penso alla poesia di Daniela Raimondi e a quella, diversissima e altrettanto affascinante, di Maria Grazia Calandrone).
La poesia può essere anche questo: segno di un’esperienza e suo superamento, parola che narra e, nello stesso tempo, si allontana da sé nel momento stesso in cui viene detta, perché nessun segno, nel metalinguaggio, è permanente. I segni soffrono l’emozione, la difficoltà del dire, la sua pericolosità. Sì, la poesia può essere pericolosa quando taglia nel vissuto e lascia aperta la ferita: ma qui l’unica possibile cucitura è lo stesso vulnus (valga un nome solo, Paul Celan; in casa nostra, Amelia Rosselli).
In aggiunta alle equazioni e alle deduzioni del ‘fare’ inteso come tèchne, apparato tecnicamente perfetto per incidere sul reale, il linguaggio poetico (e qui intendo l’uso dei suoi codici, a partire da metafora e metonimia), promette, a prezzo di un percorso percettivo, di raggiungere direttamente le cose e di portarle in luce per via interna, fisica. Scende le vene, i polpastrelli e si deposita nella penna (ormai nei tasti dell’elaboratore). Riformula la realtà, sanandola talvolta, perdonandola. Del resto ‘poesia’ sappiamo che deriva da poiein, “fare”: è un’attività concreta che esonda e pone domande ineludibili. È qui che si innesca il tema della disabilità, è in questo bisogno di dare visibilità a un’emergenza nascosta, di esporla all’occhio e al cuore dell’homo fugiens (la nostra condizione di individui che non hanno più tempo e quindi fuggono se stessi, dato che per ‘essere’ veramente occorre tempo). Di fronte a noi ‘parlanti, intelligenti’  Paola ha “differito la parola fino a quando il (n)ostro orizzonte non scoppierà d’amore”. Il miracolo dunque è possibile: Paola potrebbe parlare, se la nostra capacità d’amare glielo consentisse. La sua malattia è solo un’attesa - un’attesa che può durare una vita.
 Marco Righetti


Io, Paola, ragazza disabile

Discendo dai fiordi stellari
parabola imprevista di un firmamento stillai
come sentimento buono dall’uva di mia madre.

Mi posate sulle labbra effusioni di pane
perché ne gusti le eternità i grani

così vivo nell’esiguità di un assaggio
parto da pochi centimetri di inedito:
distinguo lingue di una pace serpeggiante
e argille ferme nelle mani di Dio.

Io fiore celato nel mio abito musivo
(una tessera dopo l’altra, il lento posarsi dei giorni)
ho rifatto il catalogo della bellezza
perché vi fermiate a me, semina nella notte,
a questa rugiada incerta che mi vela occhi e pensieri
e non chiarisce cosa c’è sotto.

Anche domani il mio corpo partirà dall’alto
da una genitura di pioggia e sole,
sarà una poesia che precipita nella carne e suscita radici,
sono Paola e mi chiamo attesa e desiderio.

Io frantoio di un sorriso che vi olia di speranza
ho differito la parola fino a quando il vostro orizzonte
non scoppierà d’amore.


Muovo l’acqua di quel che sono…

Muovo l’acqua di quel che sono
metto il dito nella stagione
a toccarla,
il germoglio sui muri e la fuga dei rimpianti,
le case che crescono nell’asfalto
terrazzi stesi e scorci feriti

sono il foglio aperto
su cui si posano lettere dal mondo
scrivono senza inchiostro la loro storia
sui miei sensi fermi,
sentinelle,

le farfalle strapazzano i fili dell’azzurro
i bambini lo tirano a sé
per sottrarlo agli altri
e scoprono che il sole si leva
come un pupazzo giallo
o un aquilone: quanti lo tengono?

Io sono nei pochi rilievi dell’ora,
la bocca soglia schiusa
e il vento che vi impasta parole e silenzi,
un riporto di memorie italiche,
filtra
il vibrare dei sistri
il fischio dell’aulos,
il corpo è già pineta.


In questo viaggio verso la nascita

Non ho scelta
nel respiro che vela il cristallo
i flutti di luna
e visita impreciso
i silenzi altrui
le dita prime dell’esistenza.

Tutto è mosso
in questo viaggio verso la nascita
d’una pace,
non vedrò mai il saldo certo
fra dolore e amore
ma è lo stesso guardando il mare:
sono più forti le tempeste
o la bonaccia, beatamente solida?

Anch’io
valvola di un mare interno
quando s’agitano abissi
o un tempo rotolante porta le sue frasi  
alla riva della bocca
e allora parole,
piccole onde,
trasparenze d’anima.

Brucia l’autunno il suo corso
nel rosso delle foglie
nel gonfiore dell’uva
prepara germogli d’inverno
riporti di luce
spende il suo pane fragrante
e pianta regioni nella carne:

ora so perché ricordo
cieli che non ho vissuto.


La ballata di Ahmed
                        I

Retate d’Africa arrivano a Lampedusa.

I risparmi di tua madre nelle fauci degli scafisti tunisini
in cambio il trasporto verso l’uva del nome Italia.

Entri anche tu nel barcone,
al momento di salpare
quattrocento mani si schiudono al sole,
gerani improvvisi e malati.
L’ombrello di una voce conforta
abbiamo pagato andrà tutto bene.

A terra invece i migranti esclusi,
cavi che non si sono sciolti dagli ormeggi,
e le unghie ora artigliano rabbia
la carretta non può portare altro

anzi voi che siete dentro
fatevi di cenere peserete meno
e non lascerete impronte:
avrete solo respiri,
nuvole di desideri

cieli inutili,
vale il piombo dei gesti,
si possono toccare naufragi,

non scendere nella stiva, Ahmed,
lì c’è un’ara di pietra
e sacrifici che preparano il buio.

                        II

Il viaggio come piante sradicate.

Il mare nostrum ha un panneggio pericoloso
è la bocca d’un dio crudele che ha ripreso vita
e vi culla tre giorni nella morfina della speranza.

La barca è un astuccio rotto
non ha matite per scrivere l’emergenza,
a poche miglia da Lampedusa la Guardia Costiera
interrompe le morti in corso.

Lo sbarco nella notte di sale.

Eccoli, i minori non accompagnati,
hanno intinto le mani nell’aorta del mare,
ora bagnano tutto quello che toccano,
sono spore da salvare
prima che volatilizzino.

Sui muri dell’isola
ci sono segni di palmi aperti
come l’alt a ogni vita sporcata
o una preghiera che non ha giunto le mani,
non hanno firma
e noi non sapremo mai, Ahmed,
su quale parete hai posato il tuo grido.

Inseguo i vicoli dei tuoi pensieri
i fantasmi che li abitano.
Le abitazioni sono cappotti chiusi,
dentro c’è la calma di affetti
già puliti, al sicuro.


Gennaio si versava sulla costa…

Quando vidi il mare e il suo respiro
immobile da lontano
mi parve un sibilo argenteo in fondo allo stradone,
la lingua di un animale favoloso.

Il cielo seno di neve incombeva
poi cadde tra noi,
il tempo di scendere nei silenzi
e tirar fuori boschi, infanzie,
sogni strappati.
I piedi delle onde, periferie di un dio,
setacciavano l’arenile,
il fondo della gola.

A che pensi?”, la tua domanda.
La vita era lì, un’offerta accecante
premeva per entrare
come il cuore bianco di un’altra esistenza,
inutile la smorfia con cui cercammo d’ignorarla.

Guarda”, e gli occhi perlustrarono con cura
il solco delle ferite:
potevamo toccare
quando si sarebbero sanate.
Contammo tre dita di giardino
intorno a noi, un verde sommerso.

Sotto i portici anime senza preghiere
in tasca, un volo stanco.
Una foglia di sole ci salvò
dal reato d’immaginare troppo. “Andiamo”.
Gennaio si versava sulla costa
come latte di astri,
ora pesava.


Interventi critici
Marco Righetti sa attivare il potere magico della poesia, distillando in versi nitidissimi, levigati (mai niente di troppo) la forza dell'empatia, la capacità d'immedesimarsi intimamente con l'altro e condivideme emozioni, sentimenti, sensazioni. Si priva di sé per essere Paola, ragazza disabile, fatta di attese e desideri, quindi creatura simbiotica del mondo (muovo  l'acqua  di quel che sono ...) dove "il corpo è già pineta". Il poeta come il mitico  Proteo in tutto si trasforma, tutto sente, rinasce ogni volta e ricorda "cieli che non ha vissuto". E' un viaggio sconfinato e  interiore, ma che attraversa e permea il lettore di colori, umori, dilatando spazio e tempo, in una panica transustanziazione. Così va oltre il sensismo simbolista e decadente (si pensi  a D'Annunzio della "Pioggia nel pineto"); qui si è dentro le cose, nel loro scorrere, fluire, rapprendersi e fuggire, implosi nella vita dove il semplice sentire diventa "essere".   Manuela  Bartolotti

Poesia intensamente autentica, La ballata di Ahmed è la cronaca di una umanità alla ricerca di affetti, di quotidiani bisogni.... L'autore racconta la disperazione di quando "la barca è un astuccio rotto..." e di quanto si muore per dare senso al proprio fuggire. Emotivamente forte, capace di toccare ogni grido, ogni mano alzata, in segno di vittoria o semplicemente di resa....   Antonio Nesci

La passione per  il mare, il piacere  di camminare sulla sua riva, il dialogare  con una persona amata, la gioia di riscoprirsi in due ad apprezzare le stesse cose, ad osservare   lo stesso paesaggio. Di  taglio  cinematografico sono i  versi  di  Gennaio si versava sulla costa, che  raccontano  l'incontro tra due persone in riva al mare in inverno e che stanno per lasciarsi. Il  linguaggio procede  per accenni e la situazione  tra  i due alterna  un dialogo frammentato con le osservazioni del paesaggio marino che rispecchia l'interiorità dei personaggi i quali ci appaiono ritratti in un momento di difficoltà  espressiva o forse anche affettiva. L'occhio dell'autore compie passaggi dal dentro al fuori e viceversa e i due vengono regalati al nostro immaginario come certi personaggi dei primi film di Michelangelo Antonioni, vittime ed al tempo stesso carnefici   l'uno dell' altro. Il lavoro di Righetti si distingue per una forma espressiva priva di debolezze sentimentalistiche, che talvolta rasenta il prosastico, ma la finta semplicità  del suo  linguaggio è capace di dare efficacia e vigore ad una storia nella quale molto è affidato all'immaginazione del lettore, perché il poeta conclude il suo lavoro affermando: “una foglia di sole ci salvò/dal reato d'immaginare troppo”  Valeria Palmas

Nelle 9 strofe cadenzate del poemetto A occhi chiusi, fluenti a denso, emorragico “flusso di coscienza”, Marco Righetti architetta una trasparente e inesorabile cattedrale interiore tutta consacrata al “sottosuolo emozionale”, al “fuoco delle consolazioni”, all’”anestesia d’una gioia” – insomma al dramma non infrequente d’una nascita difficile, tarata. Con tutta la laica pietas che si addice a un poeta vero, e soprattutto a un uomo, discepolo e adepto vero dell’Umano, l’autore irradia, rastrella insieme nuvole di sogno e zolle esistenziali, azzurro e pietre – in nome di quel luziano “duro filamento d’elegia” che solo può coniugare, esorcizzare in poesia questi drammi sempre scorrevoli e irrisolti, purgatoriali e angelici, sommersi e poi salvati…  Plinio Perilli

3 commenti:

  1. trovo particolarmente bella in viaggio verso la nascita

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  2. Grazie a Marco Righetti per queste poesie. Ho bisogno di rileggerle ed entrarvi maggiormente, tuttavia ho provato subito la sensazione di parole che distillano la vita.

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  3. Con quasi 6 anni di ritardo, di cui mi scuso, ringrazio Paolo P. e Paolo Zanardi per l'apprezzamento e la fiducia (dato che ogni poesia richiede la fiducia del lettore). Leggere che le mie parole raggiungono qualcun altro è l'esito più gradito, perché dimostra l'incontro fra il vissuto di chi scrive e quello di chi legge. Grazie a voi.

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