matteo fantuzzi


Elaborare il lutto, dirsi:
“non è vero niente”, “non è nulla”
non pensare.
E anche oggi che son passati anni
mi riappari delle volte sui menu del ristorante
o alla stazione mentre attendo l’autobus
o anche al cinema, tra le réclames di inizio proiezione:
sei un passante in campo lungo dentr’allo spot
[dell’Adidas,
nella pubblicità dei tegolini, te ne stai facendo altro
(come sempre)
sfogli il giornale e mediti i tuoi fatti, i tuoi progetti.


       * * *  



Eppure m’ero ripromesso
non sarei venuto a trovarti,
troppo è ancora oggi il ricordo
perché io non ti pensi ad Andorra, o in America,
o a Glasgow. E invece stai lì, sotto terra,
non ti curi di niente, della fabbrica in vacca,
delle nuove riforme, del periodo di riassestamento
politico, del fattore economico.
E come ne esci contento in immagine, sembra quasi
che lì si stia bene ogni tanto, che magari spostandoti
un poco ci sia spazio anche per il sottoscritto
tra quelle pareti spesse.


*  *  * 



Tutti quei campi – quei fiori –
bianchissimi. Quei campi,
quei fiori, tu che stai
dormendo. Bianchissimi.


  *  *  *



Ode al Lexotan®


Forse li avremmo avuti per più tempo
i Dino Campana o gli altri con quei farmaci:
io ad esempio, previdente, per entrar già ora
nella gloria ho iniziato con 10 gocce al giorno
prima di coricarmi; e ho intenzione
di protrarre tutto questo fino a quando
non saranno conclamati i tempi di dosaggio cronico
o non sarò riuscito più a trovare
un medico ben disposto nel prescrivermene.
Vedi, pure il mio testo in questo modo si modifica,
ora è più lento, non fa male. Non mi assale nel protrarsi
della notte. Ora questo testo non mi sbrana


  *  *  *



Alla fine l’inquadratura non l’ho avuta,
sebbene avessi preso in prestito il vestito
fatto corsi per imparare i passi base del balletto
mostrato un seno prima dell’inizio a un fonico
affinché dicesse ai cameramen di ricercarmi
con insistenza rara in mezzo al pubblico.
Ho deluso tutti in questo modo:
il mio palazzo, le donne dell’ufficio in cui lavoro,
quelle del mercato, la mia famiglia soprattutto.
L’ho gettata in uno stato di sconforto: speravano
[davvero
che io riuscissi a farcela, potessi essere importante
bucare il video anche di sbieco o in controluce.
Ma almeno un po’ bucarlo.


  *  *  *



Primo Levi


Che ne direbbe oggi Primo Levi
di un uomo scarno, dalla fronte
china e dalle spalle curve
e sul cui volto e nei cui occhi
non si possa leggere una traccia
di pensiero? Posto sul divano
come statua: tra i programmi
del secondo pomeriggio, tra le
vicende della cronaca ed il gossip;
le televendite, il meteo pronto ad annientarci,
i corpi esposti a quarti appesi ai ganci,
ancora freschi, con il sangue.
  *  *  *


Malpensa



Non è per dire, io ti ricordo al duty free
della Malpensa, con il vestito, come tutte
perché uno sguardo come quello non si scorda:
di chi da terra ha sollevato un corpo
ancora caldo e l’ha piantato, l’ha ricoperto,
ha omesso, ha tolto. Senza parlare, nulla.
È un mondo a parte la Malpensa,
coi tabelloni bianchi
coi profumi, le sigarette a stecche da 50,
il brandy che ti guarda e sembra un viso
che conosci, sparato in volto, decapitato
chiuso dai capelli, misto alla polvere,
che implora di riemergere


  *  *  *



dimmelo mamma:
che sono bellissima, come le ballerine alla televisione,
anche se in classe mi chiamano
scimmia e mi gettano in faccia le arachidi.
ma tu dimmelo. dimmi che io sono
intelligentissima meglio dei miei professori
che mi urlano “scema perché non capisci che è così
[semplice: è ovvio! ”
che mi hanno affidato a una tizia che insegna le cose
[più semplici.
ed io te ne prego tu dimmelo: dimmelo
mamma, ti prego, e smetti di piangere. Basta.


  *  *  *


Precariato



E non sai più cosa aspettarti
da questo borgo in mezzo alle montagne
dove la gente invecchia e non fa figli,
che si spopola. E tu che sei il becchino del paese
come tuo padre e il padre di tuo padre
(e che non vuoi, non puoi)
ti domandi come sarebbe meglio: che crepassero
in un solo colpo tutti per chiudere bottega,
oppure un po’ alla volta, goccia a goccia, per vivere di
[stenti,
ma nel contempo andare avanti, per resistere.
E sopravvivi in questa prospettiva di precario,
di chi lavora a termine, si attacca al calendario,
e quando senti un’ambulanza tremi e esulti assieme,
perché è così: oggi si mangia,
ma nel contempo non hai più un cliente,
è un nuovo scatto
che procede e porta al baratro, ti annienta


  *  *  *



La tv cessò di andare
la sera del 10 di settembre
e l’indomani era dal tecnico.
Alla radio puoi soltanto interpretare
come vadano le cose, anche un aereo
che si schianta su una torre
te lo immagini, o la gente
che si getta giù da piani e piani
sull’asfalto, perché sa che non ha scampo.
Non ha nulla.





Matteo Fantuzzi (1979) nato a Castel San Pietro Terme in provincia di Bologna e vive a Lugo di Romagna in provincia di Ravenna. Ha pubblicato Kobarid (Raffaelli, 2008, 20114 Premio Camaiore Opera prima, Premio Penne Opera prima). E' co-direttore delle sezioni Creative Writing e Anthologies della rivista Mosaici (St. Andrews University Scozia) e direttore della collana di Poesia Contemporanea della Ladolfi Editore. Redattore delle riviste Atelier, clanDestino e ALI, collabora con la rivista Le Voci della Luna, con l’Annuario di Poesia e col quotidiano La voce di Romagna dove cura una rubrica settimanale dedicata alla Poesia Italiana Contemporanea. Suoi testi sono apparsi su molte riviste tra cui Nuovi Argomenti, Il Verri, Yale Italian Poetry, Versodove e Gradiva. Ha creato il sito UniversoPoesia, curato La linea del Sillaro (Campanotto, 2006) sulla Poesia dell'Emilia-Romagna e La generazione entrante (Ladolfi, 2011) sui poeti nati negli anni Ottanta.

Matteo Fantuzzi, Kobarid, Rimini, Raffaelli, 2008, pp. 63, euro 10,00

La prima raccolta di Matteo Fantuzzi è giocata tra adesione ai linguaggi e ai pensieri ‘ricevuti’, e spiazzamento improvviso, quasi a sparigliare e a sorprendere il lettore proprio là dove si ritiene più sicuro, nel bel mezzo dei luoghi comuni. Si spiega così la larga presenza di componimenti chiusi da un verso isolato, oppure da una spezzatura metrico-sintattica: esemplare La tv cessò di andare…, dedicata agli attentati dell’11 settembre 2001, interpretati però non attraverso le riprese televisive, come ha fatto tutto il mondo, bensì attraverso le notizie ascoltate alla radio, immaginando lo schianto degli aerei sulle Torri, o il volo dei disperati dalle finestre. Il dramma sembra totale: ma il verso conclusivo, “Non ha nulla”, rimette in gioco le certezze di chi crede di sapere come sono andate le cose solo per aver visto quanto è accaduto.
I testi migliori della raccolta sono ruvidi, compatti da un punto di vista metrico, poco al di sopra di una lingua media, stilisticamente abbassata sino quasi allo spot pubblicitario, come in [Porta portese]: “24enne poeta. Davvero dotato, / 1.80, bel fisico asciutto…”. Ma al di là dei toni satirici o grotteschi, a volte forse un po’ troppo evidenziati, in molte poesie si coglie una tonalità più intima e sofferta, dovuta soprattutto all’assenza del ‘tu’ femminile (“È questa la mia stanza / quando manchi, sei al lavoro / o esci coi tuoi amici, sei lontana, / non m’è possibile vederti”). E si arriva all’esibizione dei conflitti interiori, come nella quasi-prosa Ode al Lexotan®, che si chiude con una dichiarazione sul valore salvifico e insieme terribile della poesia nel mondo di Kobarid (che, va notato, è il nome sloveno di Caporetto, luogo di una disfatta, soprattutto per le giovani generazioni mandate al massacro): “Vedi, pure il mio testo in questo modo si modifica, / ora è più lento, non fa male. Non mi assale nel protrarsi / della notte. Ora questo testo non mi sbrana”. Le tante immagini di distruzione proposte da Fantuzzi costituiscono insomma un sigillo e insieme una formula apotropaica, contro quello che nella realtà sta avvenendo.
Alberto Casadei
Gradiva 35-36 (Spring/Fall 09)

Fantuzzi (ed è una importante scoperta, se non proprio una novità) individua e segue, poesia dopo poesia, dei personaggi, uomini e donne, ragazzi e ragazze “senza qualità”, maschere dell’esistenza, esseri più o meno scombinati, sfigurati dalle vicende, tormentati a volte dalla violenza dei fatti che raccontano. Così come sono, legati alla realtà della cronaca ma immessi nella serietà metrica del verso, appaiono nel loro insieme come una sorta di miserevole «spoon river anthology » non segnata da tombe e da epitaffi ma dalla vita còlta nei più diversi momenti, capace di colorire volti e vicende così come fossero muri spenti delle città. Non è però un “writer” Fantuzzi: portando la sua forza (a volte violenza) poetica in luoghi poco noti e talvolta infrequentabili non della città ma dell’esistere non esita a distinguere la necessità del vivere dalla sua costante drammaticità.
Dalla postfazione di Gilberto Finzi


3 commenti:

  1. Le storie fulminanti di Matteo si muovono sullo sfondo di stazioni e fermate degli autobus, aeroporti, ristoranti, cinema. Ricordano l'andatura di spezzoni di video in binco e nero.
    Danno voce al precario, alla comparsa televisiva, al consumatore di lexotan. Totale aderenza al reale, dunque, declinato secondo i canoni di una lingua che oscilla tra il pop e il fumetto, assolutamente accessibile e accattivante. L'originalità dei suoi testi risiede inoltre nella speciale angolazione attraverso cui inquadra le sue storie. Per esempio sorprendente il racconto che fa del dramma dell'11 settembre presentatoci attraverso un televisore fuori uso col conseguente ripiego sulla radio, oppure l'invocazione struggente della bambina brutta e ritardata, le cui umiliazioni e mortificazioni si leggono riflesse nel pianto della madre. La sapienza di questa poesia sta nel recupero di un linguaggio basso, quotidiano, capace di recuperare e attrarre fasce nuove di lettori, soprattutto giovani, nella scommessa che la poesia non sia solo per pochi.

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  2. E' bello vedere il quotidiano prendere vita grazie alla poesia. Il quotidiano apparentemente così impoetico.

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  3. Matteo Fantuzzi, c'è. E' presente nel presente, con una puntualità ammirevole. E ci racconta un quotidiano che è vero anche quando è inventato, perché non è solo il suo ma anche il tuo e il mio.

    E ogni tanto vola, e da uno sguardo dall' alto:

    Tutti quei campi – quei fiori –
    bianchissimi. Quei campi,
    quei fiori, tu che stai
    dormendo. Bianchissimi.

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