Anna Magnavacca




MADRE

I (Si chiama…)

Si chiama mamma
quando per essere accarezzati
si alza il viso,
quando come alberi spogli
si aspetta un’incerta primavera.
Con dente di latte
balbettiamo quella parola,
dopo con nostalgia
mormorando pazienti frasi.

Nel mistero della vita
in sconosciuti labirinti
una madre sa annidare
giada e sole.

Antica calda tenebra
di placenta
che abita in noi a bassa voce
e sempre
riempie un ancestrale vuoto.

                                    II  ( Si parla spesso…)

Si parla spesso
di madri.
Che amano i figli
che abbandonano i figli
che piangono i figli.
Si parla spesso
di madri.
Di quell’amore che viene
da lontano
dall’eternità -
ineguagliabile-unico
anche se a volte
non ha l’azzurro del cielo.
Madri solari, felici
madri dagli occhi infossati
e dalle mani precocemente
invecchiate.
Tutte sognano aquiloni colorati
per i loro figli
ma soltanto pochi
riescono poi a tenere l’aria


III ( Sono giovani piante..)

Sono giovani piante
i figli
e bisogna crescerle.
Pendono o dalla parte
del sole
o da quella dell’ombra,
è difficile che stiano
in equilibrio.
Chiamano “mamma”
un’infinità di volte.
E tu – madre - rispondi.
Dalla porta del giardino
dalla finestra del salotto
dalla cucina?
No, devi rispondere
guardando tuo figlio
negli occhi.
Tu li conosci i suoi occhi
e puoi scoprire la verità.
È  in un lago questa verità
in un lago profondo
che soltanto una madre   
può scandagliare.

IV ---Intermezzo
Tenera voce in fondo al cuore
attraversa                                         cortili di pietra.  


V ( Gioca e salta…)

Gioca e salta
la giovane madre.
Scoccano baci e baci
carezze e sussurri di parole.
Tira i capelli
addenta la mano
sferra dolci calci
la piccola figlia.
.
E’ felice la madre
di tanta ingenuità.

Madre, verrà il giorno
degli occhi pesanti
e della mano tremante,
sarà con te
questo piccolo terremoto?

Pensi che forse sarai sola
ma adesso
infinitamente ami tanta bellezza.


VI ( Ho sentito…)

Ho sentito una donna
parlare
di sua madre
con parole nere
perché – dice – i sentieri
della sua memoria
sono tortuosi più del solito.
Non sopporta le sue domande
non capisce i suoi ricordi.
Mio Dio,
eppure questa madre
l’ha sorretta sotto le rosee ascelle
quando muoveva i primi passi,
l’ha rincorsa e ripresa
quando stava per cadere.
E l’ha amata e l’ama,
adesso a modo suo
ma sempre l’ama.

È  ferita la solitudine
nel cuore di una madre.

VII---Intermezzo
Come freccia la solitudine
veste
di dolore fiori blu.

L’onda scorre ripiega
e il tempo
ignora gli antichi sorrisi.






VIII ( Tanto tempo fa..)


Tanto tempo fa
avevo osservato mia madre.
Stava scrivendo – tacitamente –
una lettera a noi figli.
Era malata.
Scriveva di portarla alla casa
di riposo, lì non avrebbe intralciato
-       così diceva lei- la nostra vita.
Quella mano…
Sì, scriveva ma le sue dita
non avrebbero voluto
ed io lo sapevo.
Conoscevo il suo stanco cuore -
un tempo di un azzurro splendente.
Quella lettera
è nel mio cassetto.
Mia madre
è morta nella sua stanza..
Ricordo adesso lontani momenti
e so quanto era profonda
quella ruga
sulla sua spaziosa fronte.


IX – ( Erano tutte madri…)

Erano tutte madri
le amiche di mia madre.
E tutte aspettavano la visita dei figli.
Figli che spesso non arrivavano
ma sempre erano giustificati.
Sempre, comunque.
Madri dalle mani
ormai di vetro
e dagli occhi di quell’acquoso azzurro
che prelude a un tempo d’inganni.
Angeli cadenti
con la borsa della spesa a rotelle
e antichi-svaporati fiori di lavanda nel cassetto.
E lodavano i figli -
che portavano tulipani rosa -
limpidi come perle d’acqua
luminosi come il sole
e facevano capriole ( così dicevano loro)
per arrivare puntuali.
Anche mia madre mi aspettava
ma come i figli
delle amiche di mia madre
molte volte restavo impigliata
in sogni di mare
mentre mia madre
riempiva la mia assenza di dolce stupore.
Amavo mia madre
e adesso ancora amo mia madre
che non è più.

X---Intermezzo
Ancora madre
chiamerò
nella memoria gli anni belli.


XI ( Dicevo …)

Dicevo a mia madre
che l’avrei portata
con me
in viaggio -
Parigi o Vienna o Londra.
Che l’avrei portata appena libera
da troppo stretti pensieri.
E le dicevo
che avremmo bevuto un caffè
al suono di levigate melodie
in serate
con poche gocce di sonno.
E avremmo posato le labbra
su sacri ori
d’altri tempi
in chiese colme di silenzio
rotto soltanto dai profumi
di fiori lontani.
Mi ascoltava
sorrideva
e forse pensava.

Mia madre
non ha visitato
né Parigi né Vienna né Londra.
Le è bastato il sogno.
Sapeva che l’avrei portata
con me in viaggio.
                                    E’ stato avaro il tempo…
esalava umido odore di terra
e in mano stringeva
un mazzo di crisantemi

XII ---Intermezzo
La luna le sue mani
apre
al posto della bocca una pietra.

XIII- ( Mia madre…)

Mia madre è morta.
Acerba cicatrice il suo ricordo
quando mi manca-
dolce quando penso
che adesso vive in paradiso.
Anche da viva era un angelo
e gli angeli ( così mi hanno sempre detto )
stanno lassù, seduti su ringhiere dorate
a guardare noi peccatori.
Mi pare di vedere
il suo viso specchiarsi
nelle chiare nubi di primavera.

XIV ( In galleria..)

In galleria
il fresco odore nelle vene
calde di fiati voci odori sconosciuti.
Sui miei occhi
sulla mia bocca
sul mio viso
il buio,
sospeso nel cuore
in riverberi di verdi ricordi
(il viaggio con te -madre mia - per la festa
del Patrono nella bella città marinara)

E si esce dalla galleria
 - come da un’angoscia -
nel chiaro
che sommerge come onda improvvisa.
Colline alberi case
e il canto della luce
mi scaglia
nel vuoto infinito del giorno.

.XV- ( E’ dentro…..)
                                  
                                   E’ dentro che brucia
                                   la ferita                   
                                   lontana di memoria
                                   ma sottopelle viva.
                                   E’ lei che oggi vedo
                                   mia madre sulla porta
                                    - azzurra solitudine-
                                   alta la zuppiera dal cerchio d’oro
                                   e grida intorno alle parole
                                   e poi silenzio….
                                   nel silenzio dei morti.

XVI- (Non posso dimenticare..)

Non posso dimenticare
le mani di mia madre
e sempre le sento
scorrermi dentro.
Nel lavoro nel santo silenzio
nella rabbia e nell’azzurro
della primavera.
La sua destra brilla fra le stelle,
dipinta nella chiesa del paese natio.
Alto il vaso nella mano.
Lentigginose mani, lunghe
mai fredde
che risento sulla mia fronte
che ritrovo negli impasti
fatti di gesti antichi, senza parole.

E anche la sua poi morta mano
aveva per me una bellezza.
Più chiara dell’altra, più lenta
quasi di vetro, di quel vetro antico
screziato di mare, un po’ annebbiato…

Mia madre
aveva il respiro nelle sue mani,
un respiro
fatto di fatica di anni di dolore
e di quell’esplosione di bellezza
delle madri
E le sue lentiggini….
impietoso il tempo.
Quelle lentiggini
le ritrovo oggi nelle mie mani.

XVII—( Odore di naftalina…)

Odore di naftalina
nella tua stanza
fra le coperte del baule scomposte
e il tuo vestito a pois
ancora lì sulla sedia di vimini.
Lo indosserò io
e sottopelle ti sentirò.
E forse morire così
è come non morire.

Preciso l’orologio del tempo.
Sul mio mare
vele annunciano nuovi viaggi.




XVIII- (Ricordo una madre…)

Ricordo una madre
che per campare i figli
faceva la lavandaia
tanti tanti anni fa
quando la lavatrice
era un sogno americano.

Esile, dagli occhi di cerbiatta
ferita, fluttuante nelle lunghe vesti
sature di Marsiglia.
Mia madre,
un cuore non più respiro
ma ritmo di tamburo
e noi figli piccoli piccoli.
Lavava lavava per noi
ed io vedevo nelle sue braccia
il dolore che segna la pelle.
E delle braccia della schiena del collo.
Guardavo scrutavo parlavo
con lei
e mia madre capiva il mio tormento.
A mezzogiorno
potevo finalmente vedere
quegli occhi scuri farsi vivi
nel dire che il pranzo di mia madre
profumava di cedro e menta.

Non dimenticherò mai la lavandaia,
pensavo e lo penso ancora
che gli angeli piangessero la sua fatica.
Adesso, ogni volta che il cestello della lavatrice
gira strizza sgroviglia
ricordo quelle piccole mani
a come avranno fatto ad accordare
acqua e acqua e sapone.

E’ morta molto presto
forse la troppa acqua
piano piano
ha corroso la sua vita,
una vita fatta soltanto d’acqua

XIX ---Intermezzo
La sofferenza alla morte
prepara
in ruvidi calici di rossi acini.


XX—(…e la mia vita…)

…e la mia vita
scorre verso altri luoghi, altre vite.
                                    Non si può fermare il ricordo
                                    sotto campana o sotto vetro
                                    come dolce dente di latte.
Sfugge via
come anguilla fra le mani.
Non vuole ritardi –
correre correre…e ancora correre…
Odia che il ricordo diventi il presente.

Nella sua corsa
può succedere
che dimentichi qualcosa…
ma non torna indietro.










XXI-- ( Anch’io sono madre…)

Anch’io sono madre
e so quanto è difficile esserlo.
Questi miei figli che io
                                    ho cresciuto con amore
e tanti sbagli,
vorrei fossero i migliori
fra tanti.
Ma l’errore
è una scelta
qualcosa che fa parte del comune vivere,
basta osservare una rondine
che costruisce il nido
sotto la gronda sbagliata.

Figli che amo,
forse ricambiata
ma
spesso li sento lontani- stranieri
come fiori
in un sogno invernale.

Separarsi dai loro germogli
esuberanti
in volo
e osservare poi le rocambolesche
giravolte.
Meglio tacere
giù, nel prato
mentre loro su, in alto
sono danza di aquiloni.
Soltanto uno sguardo…di speranza.

Riusciranno poi a rubare
musica all’oscurità, luce alle stelle
                                    voce all’aurora?
Ci faranno sapere che sono entrati
in un palazzo di marmo
o in un solco gelato?

E’ difficile essere madri,
anch’io lo sono
e so quanto è tortuosa
la strada di una madre.






XXII---Invocazione
Nati per la mia gioia
invoco
su di voi
l’ala di un angelo.




                                 
Nota critica di Paolo Polvani.

                       Nei territori della poesia esistono terreni disseminati d’insidie, di trappole, che a percorrerli si rischia d’inciampare nelle asperità.
Ci sono argomenti che nascono minati, già alla partenza i pericoli sono lì, a portata di mano, e farsi male è un rischio per chiunque.
Temi spinosi, difficili, scivolosi. Uno di questi è la MADRE, forse il più difficile;  insieme all’amore , alla donna, ai sentimenti:  sono argomenti dove le sirene del sentimentalismo spingono allo scivolone, i richiami della retorica spalancano la porta all’ indulgenza nei confronti  degli eccessi.
Pertanto qui, davanti al poemetto Madre di Anna Magnavacca si oscilla tra l’interrogativo:  ma come, neanche un’esagerazione? neanche un piccolo inciampo nelle naturali asperità del tema? ;
e una convinta sorpresa per la leggerezza, la soavità di certe immagini, per esempio la dolcissima, delicata - Gioca e salta -, quella il cui attacco è: - Gioca e salta / la giovane madre -, e si conclude:
è felice la madre / di tanta ingenuità -. Dove è già tutta presente quella consapevolezza amara che alla fine della raccolta fa dire ad Anna, che parla finalmente in veste di madre, che nei figli avverte ormai degli estranei.
Ci si sorprende davanti a tanta partecipata leggerezza, davanti all’ironia affettuosa di versi come questi:
Erano tutte madri
mani dalle mani
ormai di vetro
e dagli occhi di quell’acquoso azzurro
che prelude a un tempo d’inganni.
Sentimento trattenuto all’interno di un dire sobrio, come sobria, misurata, è l’aggettivazione: l’aggettivo più utilizzato è azzurro (utilizzato talvolta anche in funzione sostantivale): l’azzurra solitudine, il cuore di un azzurro splendente, l’azzurro della primavera.  Forse perché Anna ha gli occhi di un bellissimo azzurro, ma certamente anche i suoi occhi poetici risplendono d’azzurro.
Il pregio di queste poesie sta nel tono colloquiale, dimesso, da racconto intorno al tavolo della cucina, con la voce tranquilla e gli occhi che brillano appena per la commozione.
E alla fine del racconto anche i nostri sono diventati lucidi, ma con garbo, senza alcuna esagerazione.
Tanto tempo fa
avevo osservato mia madre.
Stava scrivendo – tacitamente –
una lettera a noi figli.
Era malata.
Scriveva di portarla alla casa
di riposo, lì non avrebbe intralciato
-       così diceva lei – la nostra vita.
Quando ci si trova di fronte a versi imbevuti di quotidiano, che non rifiutano la realtà ma ne fanno oggetto di poesia, non si può che essere grati ad Anna di restituirci l’immagine della nostra vita, con i problemi degli anziani e una luce di grande solitudine.
E più avanti affonda ancora nella profondità del nostro sentire, quando afferma che la vita conduce i  figli su strade che divergono da quelle dei genitori, li allontana fino a farli sentire degli estranei:
Figli che amo,
forse ricambiata
ma
spesso li sento lontani – stranieri
come fiori
in un sogno invernale.




1 commento:

  1. Se per "retorica" intendiamo l'arte del parlare efficace,potremmo soffermarci a questa definizione per definire l'opera di Anna Magnavacca,che invece riesce a fare molto di più con un'equilibrata gestione delle definizioni e dei sentimenti attribuibili alla "madre".Di contrasto alla descrizione emotiva,c'è l'autrice nella piena integrità del suo essere ,nella piena responsabilità del suo dire .Non sintetico,ma dignitoso nella giusta misura di un argomento che non si risparmia ed è sempre attuale per definizione.Merita una rilettura ed anche un'intima riflessione.

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