MADRE
I
(Si chiama…)
Si
chiama mamma
quando
per essere accarezzati
si
alza il viso,
quando
come alberi spogli
si
aspetta un’incerta primavera.
Con
dente di latte
balbettiamo
quella parola,
dopo
con nostalgia
mormorando
pazienti frasi.
Nel
mistero della vita
in
sconosciuti labirinti
una
madre sa annidare
giada
e sole.
Antica
calda tenebra
di
placenta
che
abita in noi a bassa voce
e
sempre
riempie
un ancestrale vuoto.
II ( Si parla spesso…)
Si
parla spesso
di
madri.
Che
amano i figli
che
abbandonano i figli
che
piangono i figli.
Si
parla spesso
di
madri.
Di
quell’amore che viene
da
lontano
dall’eternità
-
ineguagliabile-unico
anche
se a volte
non
ha l’azzurro del cielo.
Madri
solari, felici
madri
dagli occhi infossati
e
dalle mani precocemente
invecchiate.
Tutte
sognano aquiloni colorati
per
i loro figli
ma
soltanto pochi
riescono
poi a tenere l’aria
III
( Sono giovani piante..)
Sono
giovani piante
i
figli
e
bisogna crescerle.
Pendono
o dalla parte
del
sole
o
da quella dell’ombra,
è
difficile che stiano
in
equilibrio.
Chiamano
“mamma”
un’infinità
di volte.
E
tu – madre - rispondi.
Dalla
porta del giardino
dalla
finestra del salotto
dalla
cucina?
No,
devi rispondere
guardando
tuo figlio
negli
occhi.
Tu
li conosci i suoi occhi
e
puoi scoprire la verità.
È
in un lago questa verità
in
un lago profondo
che
soltanto una madre
può
scandagliare.
IV ---Intermezzo
Tenera voce in fondo al cuore
attraversa cortili di pietra.
V
( Gioca e salta…)
Gioca
e salta
la
giovane madre.
Scoccano
baci e baci
carezze
e sussurri di parole.
Tira
i capelli
addenta
la mano
sferra
dolci calci
la
piccola figlia.
.
E’
felice la madre
di
tanta ingenuità.
Madre,
verrà il giorno
degli
occhi pesanti
e
della mano tremante,
sarà
con te
questo
piccolo terremoto?
Pensi
che forse sarai sola
ma
adesso
infinitamente
ami tanta bellezza.
VI
( Ho sentito…)
Ho
sentito una donna
parlare
di
sua madre
con
parole nere
perché
– dice – i sentieri
della
sua memoria
sono
tortuosi più del solito.
Non
sopporta le sue domande
non
capisce i suoi ricordi.
Mio
Dio,
eppure
questa madre
l’ha
sorretta sotto le rosee ascelle
quando
muoveva i primi passi,
l’ha
rincorsa e ripresa
quando
stava per cadere.
E
l’ha amata e l’ama,
adesso
a modo suo
ma
sempre l’ama.
È
ferita la solitudine
nel
cuore di una madre.
VII---Intermezzo
Come freccia la solitudine
veste
di dolore fiori blu.
L’onda scorre ripiega
e il tempo
ignora gli antichi sorrisi.
VIII
( Tanto tempo fa..)
Tanto
tempo fa
avevo
osservato mia madre.
Stava
scrivendo – tacitamente –
una
lettera a noi figli.
Era
malata.
Scriveva
di portarla alla casa
di
riposo, lì non avrebbe intralciato
-
così diceva lei-
la nostra vita.
Quella
mano…
Sì,
scriveva ma le sue dita
non
avrebbero voluto
ed
io lo sapevo.
Conoscevo
il suo stanco cuore -
un
tempo di un azzurro splendente.
Quella
lettera
è
nel mio cassetto.
Mia
madre
è
morta nella sua stanza..
Ricordo
adesso lontani momenti
e
so quanto era profonda
quella
ruga
sulla
sua spaziosa fronte.
IX
– ( Erano tutte madri…)
Erano
tutte madri
le
amiche di mia madre.
E
tutte aspettavano la visita dei figli.
Figli
che spesso non arrivavano
ma
sempre erano giustificati.
Sempre,
comunque.
Madri
dalle mani
ormai
di vetro
e
dagli occhi di quell’acquoso azzurro
che
prelude a un tempo d’inganni.
Angeli
cadenti
con
la borsa della spesa a rotelle
e
antichi-svaporati fiori di lavanda nel cassetto.
E
lodavano i figli -
che
portavano tulipani rosa -
limpidi
come perle d’acqua
luminosi
come il sole
e
facevano capriole ( così dicevano loro)
per
arrivare puntuali.
Anche
mia madre mi aspettava
ma
come i figli
delle
amiche di mia madre
molte
volte restavo impigliata
in
sogni di mare
mentre
mia madre
riempiva
la mia assenza di dolce stupore.
Amavo
mia madre
e
adesso ancora amo mia madre
che
non è più.
X---Intermezzo
Ancora madre
chiamerò
nella memoria gli anni belli.
XI
( Dicevo …)
Dicevo
a mia madre
che
l’avrei portata
con
me
in
viaggio -
Parigi
o Vienna o Londra.
Che
l’avrei portata appena libera
da
troppo stretti pensieri.
E
le dicevo
che
avremmo bevuto un caffè
al
suono di levigate melodie
in
serate
con
poche gocce di sonno.
E
avremmo posato le labbra
su
sacri ori
d’altri
tempi
in
chiese colme di silenzio
rotto
soltanto dai profumi
di
fiori lontani.
Mi
ascoltava
sorrideva
e
forse pensava.
Mia
madre
non
ha visitato
né
Parigi né Vienna né Londra.
Le
è bastato il sogno.
Sapeva
che l’avrei portata
con
me in viaggio.
E’ stato
avaro il tempo…
esalava
umido odore di terra
e
in mano stringeva
un
mazzo di crisantemi
XII ---Intermezzo
La luna le sue mani
apre
al posto della bocca una pietra.
XIII-
( Mia madre…)
Mia
madre è morta.
Acerba
cicatrice il suo ricordo
quando
mi manca-
dolce
quando penso
che
adesso vive in paradiso.
Anche
da viva era un angelo
e
gli angeli ( così mi hanno sempre detto )
stanno
lassù, seduti su ringhiere dorate
a
guardare noi peccatori.
Mi
pare di vedere
il
suo viso specchiarsi
nelle
chiare nubi di primavera.
XIV
( In galleria..)
In
galleria
il
fresco odore nelle vene
calde
di fiati voci odori sconosciuti.
Sui
miei occhi
sulla
mia bocca
sul
mio viso
il
buio,
sospeso
nel cuore
in
riverberi di verdi ricordi
(il
viaggio con te -madre mia - per la festa
del
Patrono nella bella città marinara)
E
si esce dalla galleria
- come da un’angoscia -
nel
chiaro
che
sommerge come onda improvvisa.
Colline
alberi case
e
il canto della luce
mi
scaglia
nel
vuoto infinito del giorno.
.XV-
( E’ dentro…..)
E’ dentro che brucia
la
ferita
lontana di
memoria
ma
sottopelle viva.
E’ lei che
oggi vedo
mia madre
sulla porta
- azzurra
solitudine-
alta la
zuppiera dal cerchio d’oro
e grida
intorno alle parole
e poi
silenzio….
nel silenzio
dei morti.
XVI-
(Non posso dimenticare..)
Non
posso dimenticare
le
mani di mia madre
e
sempre le sento
scorrermi
dentro.
Nel
lavoro nel santo silenzio
nella
rabbia e nell’azzurro
della
primavera.
La
sua destra brilla fra le stelle,
dipinta
nella chiesa del paese natio.
Alto
il vaso nella mano.
Lentigginose
mani, lunghe
mai
fredde
che
risento sulla mia fronte
che
ritrovo negli impasti
fatti
di gesti antichi, senza parole.
E
anche la sua poi morta mano
aveva
per me una bellezza.
Più
chiara dell’altra, più lenta
quasi
di vetro, di quel vetro antico
screziato
di mare, un po’ annebbiato…
Mia
madre
aveva
il respiro nelle sue mani,
un
respiro
fatto
di fatica di anni di dolore
e
di quell’esplosione di bellezza
delle
madri
E
le sue lentiggini….
impietoso
il tempo.
Quelle
lentiggini
le
ritrovo oggi nelle mie mani.
XVII—(
Odore di naftalina…)
Odore
di naftalina
nella
tua stanza
fra
le coperte del baule scomposte
e
il tuo vestito a pois
ancora
lì sulla sedia di vimini.
Lo
indosserò io
e
sottopelle ti sentirò.
E
forse morire così
è
come non morire.
Preciso
l’orologio del tempo.
Sul
mio mare
vele
annunciano nuovi viaggi.
XVIII-
(Ricordo una madre…)
Ricordo
una madre
che
per campare i figli
faceva
la lavandaia
tanti
tanti anni fa
quando
la lavatrice
era
un sogno americano.
Esile,
dagli occhi di cerbiatta
ferita,
fluttuante nelle lunghe vesti
sature
di Marsiglia.
Mia
madre,
un
cuore non più respiro
ma
ritmo di tamburo
e
noi figli piccoli piccoli.
Lavava
lavava per noi
ed
io vedevo nelle sue braccia
il
dolore che segna la pelle.
E
delle braccia della schiena del collo.
Guardavo
scrutavo parlavo
con
lei
e
mia madre capiva il mio tormento.
A
mezzogiorno
potevo
finalmente vedere
quegli
occhi scuri farsi vivi
nel
dire che il pranzo di mia madre
profumava
di cedro e menta.
Non
dimenticherò mai la lavandaia,
pensavo
e lo penso ancora
che
gli angeli piangessero la sua fatica.
Adesso,
ogni volta che il cestello della lavatrice
gira
strizza sgroviglia
ricordo
quelle piccole mani
a
come avranno fatto ad accordare
acqua
e acqua e sapone.
E’
morta molto presto
forse
la troppa acqua
piano
piano
ha
corroso la sua vita,
una
vita fatta soltanto d’acqua
XIX ---Intermezzo
La sofferenza alla morte
prepara
in ruvidi calici di rossi acini.
XX—(…e
la mia vita…)
…e
la mia vita
scorre
verso altri luoghi, altre vite.
Non si può
fermare il ricordo
sotto
campana o sotto vetro
come dolce
dente di latte.
Sfugge
via
come
anguilla fra le mani.
Non
vuole ritardi –
correre
correre…e ancora correre…
Odia
che il ricordo diventi il presente.
Nella
sua corsa
può
succedere
che
dimentichi qualcosa…
ma
non torna indietro.
XXI--
( Anch’io sono madre…)
Anch’io
sono madre
e
so quanto è difficile esserlo.
Questi
miei figli che io
ho
cresciuto con amore
e
tanti sbagli,
vorrei
fossero i migliori
fra
tanti.
Ma
l’errore
è
una scelta
qualcosa
che fa parte del comune vivere,
basta
osservare una rondine
che
costruisce il nido
sotto
la gronda sbagliata.
Figli
che amo,
forse
ricambiata
ma
spesso
li sento lontani- stranieri
come
fiori
in
un sogno invernale.
Separarsi
dai loro germogli
esuberanti
in
volo
e
osservare poi le rocambolesche
giravolte.
Meglio
tacere
giù,
nel prato
mentre
loro su, in alto
sono
danza di aquiloni.
Soltanto
uno sguardo…di speranza.
Riusciranno
poi a rubare
musica
all’oscurità, luce alle stelle
voce
all’aurora?
Ci
faranno sapere che sono entrati
in
un palazzo di marmo
o
in un solco gelato?
E’
difficile essere madri,
anch’io
lo sono
e
so quanto è tortuosa
la
strada di una madre.
XXII---Invocazione
Nati per la mia gioia
invoco
su di voi
l’ala di un angelo.
Nota critica di Paolo
Polvani.
Nei
territori della poesia esistono terreni disseminati d’insidie, di trappole, che
a percorrerli si rischia d’inciampare nelle asperità.
Ci sono argomenti che nascono minati, già alla partenza i
pericoli sono lì, a portata di mano, e farsi male è un rischio per chiunque.
Temi spinosi, difficili, scivolosi. Uno di questi è la
MADRE, forse il più difficile; insieme
all’amore , alla donna, ai sentimenti: sono argomenti dove le sirene del
sentimentalismo spingono allo scivolone, i richiami della retorica spalancano
la porta all’ indulgenza nei confronti
degli eccessi.
Pertanto qui, davanti al poemetto Madre di Anna Magnavacca
si oscilla tra l’interrogativo: ma come,
neanche un’esagerazione? neanche un piccolo inciampo nelle naturali asperità
del tema? ;
e una convinta sorpresa per la leggerezza, la soavità di
certe immagini, per esempio la dolcissima, delicata - Gioca e salta -, quella
il cui attacco è: - Gioca e salta / la giovane madre -, e si conclude:
è felice la madre / di tanta ingenuità -. Dove è già tutta
presente quella consapevolezza amara che alla fine della raccolta fa dire ad
Anna, che parla finalmente in veste di madre, che nei figli avverte ormai degli
estranei.
Ci si sorprende davanti a tanta partecipata leggerezza,
davanti all’ironia affettuosa di versi come questi:
Erano tutte madri
mani dalle mani
ormai di vetro
e dagli occhi di quell’acquoso azzurro
che prelude a un tempo d’inganni.
Sentimento trattenuto all’interno di un dire sobrio, come
sobria, misurata, è l’aggettivazione: l’aggettivo più utilizzato è azzurro
(utilizzato talvolta anche in funzione sostantivale): l’azzurra solitudine, il
cuore di un azzurro splendente, l’azzurro della primavera. Forse perché Anna ha gli occhi di un
bellissimo azzurro, ma certamente anche i suoi occhi poetici risplendono
d’azzurro.
Il pregio di queste poesie sta nel tono colloquiale,
dimesso, da racconto intorno al tavolo della cucina, con la voce tranquilla e
gli occhi che brillano appena per la commozione.
E alla fine del racconto anche i nostri sono diventati
lucidi, ma con garbo, senza alcuna esagerazione.
Tanto tempo fa
avevo osservato mia madre.
Stava scrivendo – tacitamente –
una lettera a noi figli.
Era malata.
Scriveva di portarla alla casa
di riposo, lì non avrebbe intralciato
- così
diceva lei – la nostra vita.
Quando ci si trova di fronte a versi imbevuti di quotidiano,
che non rifiutano la realtà ma ne fanno oggetto di poesia, non si può che
essere grati ad Anna di restituirci l’immagine della nostra vita, con i
problemi degli anziani e una luce di grande solitudine.
E più avanti affonda ancora nella profondità del nostro
sentire, quando afferma che la vita conduce i
figli su strade che divergono da quelle dei genitori, li allontana fino
a farli sentire degli estranei:
Figli che amo,
forse ricambiata
ma
spesso li sento lontani – stranieri
come fiori
in un sogno invernale.